Due artisti che caratterizzano il diciannovesimo secolo e che manifestano nelle loro opere una situazione interiore significativamente travagliata sono Vincent Van Gogh (1853-1890) e Paul Gauguin(1848-1903). Il primo olandese ed il secondo francese, vissero in stretta relazione ed ebbero modo di confrontarsi sulle tecniche pittoriche ma non solo: nella cos’ detta “casa gialla” ad Arles i due si incontravano e discorrevano su tematiche non necessariamente riguardanti l’arte. Improvvisamente però tra i due, a causa di un’incomprensione causata dal disaccordo sulla maniera di dipingere, scoppiò una lite e le loro strade si divisero nettamente. Van Gogh in particolare non riuscì ad accettare il litigo con l’amico e, anche a causa dei suoi tormenti interiori, finì con l’essere mandato in manicomio dopo essersi tagliato un lobo dell’orecchio per la tensione che il tutto gli aveva provocato.
Entrambi tuttavia mostrarono, analizzando la loro biografia, una crisi interiore che si può facilmente ripercorrere attraverso le loro opere sia ad un’analisi iconografica che stilistica: Van Gogh fu sempre uno spirito focoso, vulcanico e creativo ma anche mentalmente malato, caratterizzato da forti crisi depressive ed impeti di disperazione mentre Gauguin manifestò fin da principio una tendenza all’evasione dalla società, che evidentemente non poteva fornirgli ciò di cui aveva bisogno, e alla ricerca dei valori umili, semplici, primordiali e soprattutto della vita incontaminata.
Il primo non potè trovare una soluzione concreta ai mali che lo affliggevano se non attraverso il rifugiarsi sotto l’ala protettrice del fratello Theo (importante commerciante e direttore di gallerie d’arte) che contribuì fortemente al suo successo. L’immagine che si è consolidata di Van Gogh è dunque quella di un outsider che ha portato a definirlo dunque come una sorta di “genio incompreso”, di artista pazzo ed intuitivo. L’aspetto negativo risulta però essere il suo travaglio interiore e la vera e propria crisi dell’esistenza, disgregazione delle certezze e dell’io dell’autore che ne conseguono.
A differenza del suo amico, Paul Gauguin cercò, almeno per un periodo, di raggiungere il suo scopo ossia, come abbiamo detto, recuperare i valori primordiali e la vita incontaminata. Egli infatti si recò in alcune isole dell’America latina (la più importate fu Panama) e soprattutto a Thaiti, dove potè convincersi della purezza che la vita in quei luoghi portava con sé. L’artista era dell’idea che, in una società come quella occidentale caratterizzata dalla corruzione, dalle falsità e dall’avanzare dei disvalori che l’uomo sempre più accettava come regole di vita, si dovesse provvedere ad un capovolgimento della tendenza prima che fosse troppo tardi. Gauguin attraversò periodi difficilissimi a livello interiore ed esistenziale mentre si trovava in Francia perché non riusciva a capire il senso della vita e delle cose in generale. La fuga in questi paesi dove i tempo sembrava essersi fermato fu dunque la soluzione più immediata che egli seppe trovare al suo problema. Successivamente però si può affermare con una certa tranquillità che ciò non dissolse i suoi dubbi sull’esistenza che riflettevano, anche nel suo caso, una condizione interiore di crisi, fermento nonché alienazione. Egli li esprime per esempio nel quadro che mi accingo ad analizzare, basato su tre fondamentali quesiti (tra l’altro rimasti irrisolti) a proposito della vita umana “ Da dove veniamo?Chi siamo? Dove andiamo?”.
Per quanto riguarda il maestro olandese risulta interessante prendere in considerazione l’ultimo periodo della sua produzione artistica in quanto è quello che ci sfoggia la maggior parte delle ripercussioni della sua crisi esistenziale e in un certo senso anche della sua malattia: a livello stilistico le pennellate diventano qui più gestuali ed il colore più materico e la pittura è di conseguenza espressione della situazione interiore dell’artista che non si preoccupa di rappresentare gli elementi per essere compreso o perché il dipinto risponda ai canoni di bellezza del tempo ma che da ampio sfogo al suo impeto interiore ed alle sue passioni. L’arte dell’ultimo Van Gogh può dunque essere definita impetuosa ma soprattutto istintiva. Naturalmente, come spesso è accaduto nella storia, le innovazioni vengono percepite e capite lentamente oppure improvvisamente ma in ritardo. Così fu per l’artista in questione, che intravide il successo solo negli ultimi mesi di vita. E’ opportuno infine precisare che con “ultimo periodo” si intendono gli anni che vanno approssimativamente dal 1880 al 1890.
Volendolo paragonare all’amico francese, è d’obbligo dire che quest’ultimo sviluppò la sua pittura in una direzione diversa: si concentrò infatti molto di più sulle stampe giapponesi che influenzarono le sue opere per quanto riguarda le regole della prospettiva, le campiture di colore piatto, i contorni neri ed i forti contrasti cromatici e fu anch’egli un innovatore in quanto riuscì ad indirizzare la sua arte verso il così detto “sintetismo” che, in una parola, può essere descritto come esaltazione dello stile semplice. La sua crisi interiore che si tradusse a livello biografico in numerosi viaggi verso paesi liberi da qualsiasi condizionamento, marcò in campo stilistico la caduta di tutte le regole della prospettiva e delle proporzioni (come è ben visibile in “Visione dopo il Sermone”) e soprattutto l’allontanamento dalla logica naturalistica improntata sulla visione oggettiva della realtà che si proponeva di riportare esattamente ciò che si vedeva senza alcun condizionamento proveniente dall’interno (definita anche per questo visione esterna). Gauguin invece concepisce la realtà come specchio del mondo interiore dell’artista ed il primo mezzo per scavare nell’interiorità di quest’ultimo risulta essere il colore: colore che è però in molti casi differente dalla realtà ( anticipa così l’espressionismo) in quanto quest’ultima è filtrata dall’animo artistico dell’autore. Infine è necessario sottolineare che attraverso queste tecniche è visibile e nitida ai nostri occhi la necessità, causata dal dolore interiore e dalle conseguenti incertezze, di liberarsi dal mondo reale rifugiandosi così spesso in qualcosa di astratto e ricercando il senso della vita proprio in quest’ultimo mondo creato personalmente dall’artista.
Per comprendere meglio i due artisti appena descritti è sicuramente d’aiuto analizzare due opere emblematiche per loro arte ma soprattutto per la loro crisi esistenziale, vissuta da entrambi ma in modo, come già esplicato, differente. Per quanto concerne l’ultimo periodo di Vincent Van Gogh si prenderà in esame “La notte stellata”, mentre, parlando di Gauguin, ci si concentrerà come già anticipato su “ Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”.
Analisi del dipinto “ La notte stellata” – Vincent Van Gogh- 1889, New York, Museum of Modern Art
Dipinto nel 1889 conservato a New York al Museum of modern Art, "La notte stellata" di Vincent Van Gogh (di cui esistono, per altro, molteplici versioni) rappresenta forse, più di ogni altra opera del grande pittore olandese, il coronamento della sua concezione naturalistica, non tanto in termini strettamente filosofici, ma nel senso del suo rapporto quotidiano, visivo, con il mondo esterno e, nella fattispecie, col firmamento. Il pittore fu sempre molto legato infatti alla realtà naturale e questo dipinto ne è la prova inequivocabile. Egli sosteneva di non essere in grado di dipingere un cielo notturno in quanto gli era impossibile rappresentare la realtà notturna. Il pittore volle comunque tentare nella sua impresa e per riuscirvi escogitò un singolare sistema che consisteva nel fissare due candele al suo cappello in modo da poter vedere, in maniera altamente artigianale, il soggetto da dipingere. Il maestro riuscì così ad ottenere una rappresentazione all’aria aperta e non riprodotta in studio (en plein air per dirla come gli impressionisti francesi) di un paesaggio notturno. Come si può facilmente osservare il risultato non fu però realistico: il cielo è caratterizzato da un gran numero di comete che si stagliano sui tratti a vortice dati da una pennellata gestuale. Il paesaggio di Arles assume così una veduta singolare che sembra avvicinarsi a quella di un evento cosmico.
FOTO DEL DIPINTO
Se osserviamo le dimensioni attribuite alle figure, prevale la volta stellata, il cielo impregnato di astri, di bagliori e di aureole. È evidente l'intento dell'autore di rappresentare un mondo sensibile, che affascina, stupisce, ammalia, per la sua grandiosità, per l'energia che può emanare. Tuttavia, il cielo copre per la gran parte della tela il paesaggio sottostante quasi ad avvolgerlo, a proteggerlo in un materno abbraccio. I colori della volta celeste si riflettono sulle case, sulle montagne, sui colli, e numerosissimi tasselli blu, gialli, verdi, si giustappongono, si accostano, si mescolano, riportando alla mente le composizioni divisioniste di Seurat e le tecniche impressioniste.
Non mancano, tuttavia, nel dipinto aspetti enigmatici, inquietanti (come, ad esempio, la presenza in primo piano del cipresso, con la sua imponente sagoma scura, che sembra ricondurre immediatamente l'osservatore alla realtà dell'umano destino) resi ancor più concreti dalla pennellata corposa, materica, impressa sulla tela con un'energia che non è solo muscolare o fisica, ma proviene dal profondo dell'animo. Ancor prima dei soggetti dipinti, è proprio quest'istintività, questa forza compositiva, come ho già detto in precedenza, ad indicare il travagliato rapporto dell'artista con la realtà del mondo e della vita. Attraverso queste pennellate così potenti e cariche di sentimento egli ci vuole esprimere con una pienezza e completezza sconvolgenti tutta la sua crisi interiore. Tutto sembra incantato nella tela. Infatti, magico e fatato appare il piccolo villaggio che dorme, rischiarato dalla luna nel cielo. Eppure il tratto tortuoso, spezzato, talvolta cupo, rivela l'indubitabile tormento presente nell’anima dell'autore. Al contempo, la scelta di tonalità calde, presenti qua e là, come il giallo e l'arancio, contribuiscono a rasserenare l'animo e ad offrire una sensazione di bellezza e soprattutto di vita. Analogamente, i flussi atmosferici (o se si vuole, le nebulose astrali) risolti in forme turbinose e spiraleggianti, sembrano possedere un impeto e una vita non propri, e autorizzerebbero perciò ad adombrare un assoluto superiore, divino. Infine, risulta necessario dire che il dipinto è attentamente strutturato e composto: a partire dalla linea diagonale delle montagne che attraversa tutto il dipinto ed è sottolineata da queste linee ondivaghe gialle dona un ordine all’intera composizione. Esiste una corrispondenza inoltre tra le linee tondeggianti che caratterizzano gli astri e quelle degli alberi che si trovano sparsi nel mezzo della città. Affascinante inoltre il legame tra il tetto a punta del campanile e quello del cupo e nero cipresso in primo piano. Quest’ultimo ha la funzione di chiudere ed aprire allo stesso tempo la scena e potrebbe essere inoltre interpretato o visto come un presagio di morte (da qui il fascino della correlazione con la chiesa) dalla forma che ricorda quella di un obelisco egiziano. Ricordo anche che anche le stampe giapponesi, tanto riprese da Gauguin, rappresentavano spesso degli alberi in fiore.
Analisi del dipinto “ Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” – Paul Gauguin-1897/1898, Boston, Museum of Fine Arts
Nel 1897 Gauguin apprende la notizia della morte della figlia in seguito ad una polmonite e l’anno dopo tenta il suicidio. Egli infatti si trovava nel bel mezzo di una situazione finanziaria oramai divenuta incontrollabile, era malato, triste e molto nervoso. Fu per questo che probabilmente cercò di interrogarsi sul senso della vita e sull’esistenza che l’uomo conduce sulla terra, la quale nel suo animo attraversava una profonda crisi. Questo quadro, oltre ad essere espressione di un travagliato periodo della sua produzione artistica, è stato identificato come il testamento artistico e spirituale dell’artista: in quest’opera possiamo trovare infatti tutto Gauguin. Egli forse non lo concluse a causa della malattia che lo porterà alla morte nel 1903. Le interpretazioni sulla completezza o meno del dipinto sono molteplici; meglio tuttavia attenersi alle parole del maestro che ci descrive molto sinteticamente la sua complessa situazione interiore al momento della produzione di questo capolavoro, egli dice infatti di trovarsi in “ uno stato di vaga sofferenza e sensazione dolorosa di fronte al mistero incomprensibile della nostra origine e dell’avvenire”.
Innanzitutto, per poter analizzare la lunga tela è necessario soffermarsi sul titolo che sembra effettivamente essere un’allegoria al senso dell’esistenza, in crisi nell’animo di Gauguin, ripercorso in tutti i suoi stadi di infanzia, giovinezza e vecchiaia. Sicuramente le dimensioni ci possono suggerire una successione di concetti espressi attraverso il fine significato simbolico delle figure: l’opera misura infatti quasi quattro metri in lunghezza e si estende in orizzontale. Inoltre, è interessante precisare che nel bordo in alto a destra sono situate la datazione dell’opera e la firma dell’artista mentre in quello opposto si trova il titolo dell’opera. Benché egli volle far credere che nulla fu precostruito e che l’intero disegno fu fatto “di getto”, Gauguin eseguì moltissimi disegni preparatori, lavorando dunque assiduamente per la buona riuscita del suo nuovo lavoro che sembra quasi voler rassomigliare ad un affresco per via degli angoli rovinati e dell’estensione orizzontale della narrazione.
A livello strutturale è sensibilmente importante l’ordine attraverso il quale le figure, che vanno analizzate in piccoli gruppi oppure anche singolarmente, sono state disposte. Lo stesso autore, in un suo scritto, descrive i vari elementi secondo un’ordinata e ponderata successione: “ A destra in basso, un bambino addormentato e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i loro pensieri. Una grande figura accovacciata, che elude volutamente le leggi della prospettiva, leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al loro destino. Al centro una figura coglie frutti. Due gatti accanto a un fanciullo. Una capra bianca. Un idolo, con le braccia alzate misteriosamente e aritmicamente, sembra additare l’aldilà. Una figura seduta pare ascoltare l’idolo. Infine una vecchia, prossima alla morte, placata e presa dai suoi pensieri, completa la storia, mentre uno strano uccello bianco, che tiene una lucertola tra gli artigli, rappresenta la vanità delle parole. “ Bisogna sottolineare come, comunque, tutte le figure si trovino in relazione all’uomo centrale che coglie i frutti e che rappresenta senza ombra di dubbio la figura più importante, anche in base alle dimensioni rispetto alle altre.
Per comprendere a fondo la portata dei significati di questo quadro è necessario procedere ad un’analisi iconografica che può partire dalla sinistra del dipinto e procedere per ordine verso destra: in basso a sinistra troviamo un uccello bianco con una lucertola nel becco che, come sottolinea Gauguin, indica la vanità e la futilità delle parole. A fianco si trova una figura cupa che rappresenta la vecchiaia ed è caratterizzata dalla tristezza e dalla disperazione, facilmente intuibili dal gesto di tenersi il capo con le mani. Sul fondo un idolo, con ogni probabilità ripreso da alcuni totem orientali o divinità asiatiche, che addita all’aldilà mentre, spostandoci verso il centro, incontriamo la figura centrale e più importanti che sembra proprio cogliere dei frutti: questi ultimi sono i frutti della giovinezza che,associati appunto all’uomo in questione, rappresentano la fase migliore dell’esistenza. Le due donne sul fondo del dipinto, che quasi si dissolvono nel boschetto e nei colori scuri del paesaggio, stanno pensando al proprio destino, così come le due in primo piano in basso a destra, che sembrano volersi confidare dei segreti. Infine, il bambino accanto a queste ultime è ovviamente simbolo della prima età della vita.
La prospettiva è pressoché minima e la profondità inesistente; tutti gli elementi sono posti in superficie, proprio come nelle stampe giapponesi che tanto influenzarono l’artista. La luce investe tutti e tutto con gradualità, anche se sembra non dimenticarsi dell’attenta scala gerarchica esistente tra i personaggi: il più illuminato è in effetti quello di mezzo e successivamente gli altri (le figure sullo sfondo sono infatti meno importanti perché le loro dimensioni risultano essere ridotte e la luce è quasi assente dai loro volti). A livello paesaggistico possiamo innanzitutto notare dei colori gravemente cupi, composti dal blu e dal “ verde veronese” come li definisce Gauguin stesso, sui quali si stagliano le figure colpite dei raggi luminosi provenienti dalla destra che le rendono gialle, ocra o sui toni del marrone, creando così un suggestivo contrasto.
Assolutamente non tralasciabile è la tecnica pittorica caratterizzata da imperfezioni prospettiche, bidimensionalità ed uso arbitrario nonché espressionista del colore. Essa dona dunque un’idea di astrazione al tutto che tende alla ricerca di sensazioni più intense, più profonde ed essenziali. I colori e la materia diventano così espressione dello stato d’animo del pittore. La suddetta tecnica può inoltre essere ricollegata, insieme alla struttura dell’intero dipinto, ai fregi simbolisti di Munch e Klimt oppure a quelli classicisti di Puvis e Chavannes. Evidente è in aggiunta l’influenza delle stampe giapponesi: la visione dell’opera è data dall’alto, i contorni delle figure sono marcatamente neri, la prospettiva è assente e le campiture cromatiche sono complessivamente piatte.
L’interpretazione dell’opera come spesso accade non è univoca: per molti essa rappresenta l’umanità e l’esistenza che secondo Gauguin si scindono tra razionalità e tendenza a filosofare (rappresentata dalle due figure con “abiti color porpora”) ed una a vivere in maniera inconsapevole e in armonia con la natura. Altri la vedono puramente come una metafora della vita nei suoi aspetti principali di suddivisione delle età e altri ancora come un puro confronto tra natura e ragione. Alla fine però solo l’artista è a conoscenza del taglio più adatto da dare al suo lavoro. E’ indubbio la forte soggettività dell’opera e l’espressione dell’interiorità dell’artista che si mostra con le sue debolezze e che esterna tutta la sua crisi esistenziale. Qui tutto è arbitrario anticipando così l’espressionismo.
Gauguin diventò famoso solo negli ultimi anni di vita, così come Van Gogh, e possiamo tranquillamente affermare che l’uomo che aveva cercato da sempre la libertà di dipingere la sua soggettività nell’essenza delle cose ed aveva vissuto la sua vita al di là di convenzioni e doveri, aveva vinto la sua battaglia.
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